giovedì 15 ottobre 2015

Taya e Yasmeen,un israeliana e una palestinese. Due candele in mezzo al buio, in lotta per la libertà e la fine dell'occupazione israeliana.

E’ ricominciata la terza intifada, o almeno così sembra. E’ ricominciato il terrore, la paura e la violenza torna ad essere più acuta. Israeliani contro palestinesi, pallottole contro coltelli, e poi pietre, e botte, e urla. L’odio ha ripreso a fluire più aggressivo di prima. Gli israeliani arabi (alias i palestinesi d’Israele) sono carichi di rancore e i motivi risiedono nella Storia, i motivi risiedono in una continua discriminazione, i motivi risiedono in un costante e troppo lungo sopruso.

Io non voglio giustificare la violenza, ma giustifico la rabbia, la capisco, lo concepisco. Non è giusto arrivare a parlare di buoni e cattivi, ma la Storia ci racconta che a volte vi sono gruppi più cattivi di altri. Il Palestinese è arrabbiato, è stufo del sopruso, è stufo del muro, è stufo di essere sotto occupazione. E’ stufo e lotta, lotta per resistere, lotta per la propria libertà, lotta perché gli stanno portando via la dignità e la vita. Non voglio giustificare la violenza efferata, condanno quindi sì il palestinese che ha ucciso l’israeliano innocente, ma la Storia, le immagini parlano da se e quanto sta accadendo questi giorni in Cisgiordania ripone le sue radici in un lungo, troppo lungo processo di soprusi e violazioni, che ha raggiunto il suo culmine con la dichiarazione di rendere Israele uno stato ebraico, sottoponendo gli israeliani arabi anche dal punto di vista giuridico ad una condizione di subalternità. Io, che in Palestina e in Israele ci sono stata, io che la Cisgiordania l’ho visitata ho visto, ho condannato, ho denunciato. So e mi vengono i brividi nel pensare che uno dei ragazzi conosciuti da un momento al altro può cadere vittima di uno scontro. Ma non voglio essere l’unica voce a raccontare. Voglio lasciar parlare Taya Govrel Segal, una ragazza israeliana di vent'anni che martedì ad una conferenza al Università di Bologna con le sue parole ha lasciato che i miei occhi si riempissero di lacrime.

Taya abita in una città adiacente la Cisgiordania, Taya da qualche anno è un obiettrice di coscienza. Inizia la sua “Story”, così lo chiama, mostrandoci una cartina, La cartina dello Stato d’Israele e dei territori occupati della Palestina. Ci dice che in quel fazzoletto di terra, le cui dimensioni equivalgono alla Sardegna, ci vivono 12.5 milioni di abitanti. 8.1 milioni in Israele, i restanti in Cisgiordania, sotto occupazione militare. Continua dicendoci che lei è cresciuta da privilegiata, ma che nonostante il fatto che viva a pochi chilometri dalla Cisgiordania, nella sua città si fa finta di nulla, non si sente, non si vede non si dice nulla. Poi al improvviso ha trovato un volantino per un campo in cui si parlava di diritti, del conflitto, dei rifugiati, del femminismo. Da lì la sua vita ha preso una svolta nuova. Ha cominciato a guardare La Palestina con occhi diversi, ha cominciato a scoprire quello che per 16 non aveva saputo nonostante ci vivesse, ma in realtà ne era totalmente al oscuro. Prende così a raccontare della Storia del conflitto, partendo dal 48, la prima guerra, la più feroce, quella che permise ad Israele di espandersi e non permettere la costituzione di due Stati; e poi della guerra del 67. Ci ripete, rossa in volto, e con la voce emozionata e forse un po’ imbarazzata che Gaza è sotto occupazione, che vi sono diversi tipi di palestinesi, quelli che fanno parte dello Stato d’Israele ma sono trattati come cittadini di serie B, quelli che vivono in Cisgiordania che non possono uscire fuori senza il permesso dell’esercito, poi ci sono i Palestinesi di Gerusalemme est muniti di residenza ma privi di cittadinanza, i palestinesi di Gaza, strisciolina di terra da cui non possono uscire, e infine i sei milioni costretti dopo anni nei campi profughi. Ed ecco che riprende a parlarci della sua esperienza diretta. Tornata a casa dal esperienza al campo, c’era lì ad aspettarla il foglio con l’obbligo del servizio militare. Doveva partire, il servizio militare in Israele è obbligatorio, ma lei non voleva più, non voleva rendersi parte del sistema. Quando li portarono ai luoghi della Shoa, continua, gli si voleva inculcare che loro dovevano imparare a combattere e difendersi per evitare quanto era successo, per questo era necessario il servizio militare. Ma oramai sapeva, sapeva cosa facevano i soldati, sapeva del muro e di quante ingiustizie venivano perpetrate dai soldati. Si chiese dunque cosa fare, doveva seguire la sua etica di persona o bisogna seguire il suo dovere di cittadina? Scelse per l’etica, scelse per la Disobbedienza civile. Del resto per lei fu facile, perché se sei donna essere pacifista è più normale che per un uomo.Scoprì poi che vi erano organizzazioni e gruppi di obiettori, che insieme manifestavano contro il servizio militare, contro il sessismo insito in esso. Una volta che diventi soldato dice non sei più lo stesso, ti inquadrano più di quanto non abbiano già fatto prima. Essere soldati significa tutto per lo Stato d’Israele. In Israele funziona che se fai il servizio militare avrai un lavoro migliore. In Israele, prosegue con le lacrime agli occhi, i soldati vanno nelle scuole israeliane tutte le settimane, e lì insegnano la guerra ai ragazzi, insegnano ad essere futuri cittadini d’Israele, fanno scuola dicendo falsità, fanno scuola insieme agli insegnanti. Ha deciso quindi di unirsi ad un gruppo d’attivisti per manifestare contro questo processo di militarizzazione, si è unita alla lotta palestinese non violenta per aiutare i palestinesi a Proteggere i campi d’ulivo, ha deciso di agire agire tramite proteste contro il muro di protezione, che ha lo scopo di garantire il maggior numero di territorio a Israele, e il minimo alla Palestina. Ma non bastava, doveva anche dire, parlare, raccontare e capì che doveva dire ciò che accadeva, raccontando la verità e ha deciso di unirsi alla Israel Social Tv. Si chiede Taya come mai gli altri non vedano, come mai gli altri suoi amici non riescano ad aprire gli occhi, a non capire. Lei non può più non parlare, non può più far finta di niente e chiudere gli occhi come gli altri. Dice che ha perso quasi tutti i suoi amici delle superiori, ora come amici ha solo i suoi compagni attivisti. La famiglia non è d’accordo con la sua scelta, è dispiaciuta che la sorella andrà a prestare servizio militare macchiandosi di malefatte. Mentre la sua compagna di conferenza e di viaggio, una ragazza Palestinese parla a sua volta raccontando delle violenze che subisce il suo villaggio vicino Nablus, abbassa la testa, si vergogna, soffre e s’arrabbia nel sentir parlare di quanta violenza gli israeliani sono capaci di dimostrare. Talvolta addirittura interviene per aggiungere sue conoscenze e sostenere i racconti di Yasmeen.

Yasmeen Al Najiar è una ragazza palestinese di 19 anni, rimasta invalida all età di 10 anni a causa di un ordigno israeliano. Dopo l’invalidità nel 2014 ha deciso di intraprendere un cammino per raggiungere la vetta della Libertà. Nasmeen è partita con una protesi alla gamba per scalare il Kilimangiaro e issare sulla cima la bandiera della Palestina e c’è riuscita. Taya sorride quando Yasmeen mostra l’attestato che prova la riuscita della scalata. Sono amiche, lo si vede, e mi commuovo e per un attimo non penso agli scontri degli ultimi giorni.

Alla fine della conferenza vado da loro, stringo la mano a entrambe e le ringrazio. Sono ragazze forti Taya e Yasmeen, lo dicono i loro sguardi, lo dicono le loro parole, le emozioni che lasciano appena trapelare. Sicuramente, perché sono nate in una terra che non trova pace, ed oggi sicuramente saranno state in pensiero tutte e due per quanto è successo nelle loro città. Hanno 19 e 20 anni Taya e Yasmeen, e nonostante la giovane età, sono donne mature, sono donne che hanno vissuto e che vogliono combattere contro l’odio e la brutalità che gli circola da troppo tempo intorno. Subiranno altri mali, ma Resistono, e Insieme si raccontano e raccontando provano a parlare di qualcosa che deve cambiare, provano a parlarci di una nuova Palestina e di un nuovo Israele, provano a parlare di due popoli che devono cambiare. Nella loro rabbia, nella loro tristezza sperano, perché hanno deciso di combattere per la giustizia e la Pace, e la libertà, insieme loro due, un israeliana e una palestinese. Loro sono la ragione per cui è ancora giusto continuare a sperare che vi saranno tempi migliori. 

mercoledì 2 settembre 2015

Ditemi se questo è un uomo...

Sono stata in spiaggia oggi. Davanti a me il mare. E quel rumore di onde e di gabbiani. E quel odore salato e carica d’ossigeno. A me il mare m’ha sempre dato una sensazione di pace, di armonia. Ora, guardando quel mare, e questa riva, e quei bambini con la palla che giocano, lungo la mia guancia scorrono lacrime salate e amare. Perché quel mare che bagna questa mia terra è lo stesso che ha portato sulla riva di una cittadina turca cadaveri di uomini, donne e bambini morti, è lo stesso mare che accoglie le salme di migliaia di vittime. Vittime non solo di guerre, ma vittime di un Mondo che non li vuole, vittime e ultimi, in un Mondo dove la classificazione gerarchica degli uomini emerge ancora e con violenza. Quel mare che per noi abitanti di una cittadina turistica è fonte di guadagno, per i più significa via di fuga, per molti significa salvezza, per troppi significa morte. Tornata a casa, accendo il computer, ed ecco la foto del piccolo siriano morto disteso sulla riva di una cittadina turca. Un brivido di paura e orrore mi ha scossa. I giornali titolano che il Mondo dinnanzi a tale immagine ha taciuto, il Mondo ha avuto pena e pietà di quel bambino. Il suo innocente corpicino ha scosso i cuori di chi fino ad oggi non è stato minimamente scosso. Ma serviva la sua morte prima che il Mondo tacesse? Serviva l’ennesimo bambino siriano ucciso per parlare di un paese che è capace di dirsi sensibile? Il Mondo in realtà tace d’indifferenza, il Mondo crudelmente accetta la classificazione gerarchica di questo sistema, e in questo modo la bellezza svanisce, l’umanità cessa di esistere. Perché quella che stiamo vivendo noi qui oggi è la guerra dei poveri contro i ricchi, è la guerra dei disperati, dei senza speranza, dei rifiutati e c’è chi si permette ancora di pensarli inferiori a noi, diversi da noi perché sono nati dall’altro lato del mediterraneo. Questa Europa si dice salda, eppure lascia che lunghi muri di filo spinato vengano costruiti lungo le proprie frontiere per bloccare il passaggio, lascia che stazioni ferroviarie vengano prese d’assalto, lascia che la polizia nazionale carichi su uomini, donne e bambini indifesi, lascia che si marchino persone con il pennarello, lascia che l’unico sistema per attraversare il mediterraneo è quello di appellarsi ai trafficanti, e lasciando che tutto questo si compia, pur di difendere la propria sicurezza, mostra la propria porosità, la propria fragilità.  Per rispondere alla solita domanda di questi giorni " dove cazzo li mettiamo tutti", sinceramente ancora proprio non lo so. Però ho paura che forse non ci stiamo rendendo conto, che a furia di porci questa domanda senza trovare delle soluzioni vere e immediate, che non possono consistere a mio parere né in una guerra alla Libia, né nella costruzioni di ulteriori barricate, stiamo lasciando che si compi un vero e proprio genocidio, una seconda Auschwitz proprio davanti e sotto i nostri occhi. Io non so come molti riescano a guardare a chi arriva come esseri diversi da noi. Io spero davvero che certe immagini riescano a raggiungere i vostri cuori, la vostra umanità. Io spero che ognuno di noi, oggi, domani e nei prossimi giorni prima di prendersela con l’extra comunitario, faccia uno sforzo di empatia, uno sforzo di umanità e si metta nei suoi panni, si chieda semplicemente “cos’avrei fatto io al suo posto” . Se non siete capaci nemmeno di questo, se un uomo non è più in grado di mettersi nei panni dell’altro uomo allora vuol dire che non v’è più salvezza per l’umanità e non vi è alcun vincitore in questa assurda guerra, ma solo sconfitti.

lunedì 1 giugno 2015

Regionali 2015: nessuno ha ha vinto davvero.

Guardando agli exit poll di queste regionali resto perplessa e sì triste. Perché è l'Italia tutta che ha perso. Nessuno ha vinto davvero. Che non esultino tanto i piddini che si sono visti aggiudicata la vittoria in 4/5 regioni ma solo con in media appena il 20% del consenso a livello nazionale. Perché quando solo un italiano su due va a votare, quando nel centro Italia la lega Nord arriva a percentuali del 20% dei votanti per regione, se in Campania vince un impresentabile, non puoi che renderti conto che per quanto tu partito di "centro sinistra" ti sei aggiudicato il governo di più regioni rispetto agli altri partiti non hai vinto davvero. A "vincere" è sempre più lo sconforto, l'amarezza, la disumanizzazione, l'indifferenza, l'omertà culturale, la rabbia sociale, la sfiducia in tutto ciò che l'istituzione rappresenta, prodotti sì anche della nostra cultura, ma soprattutto di un sempre più disattento sguardo ai bisogni dei cittadini, di un sempre più debole senso di Stato e Democrazia. E io voglio che chi di dovere se ne renda conto. Voglio che non si facciano discorsi di vittoria ma di presa di coscienza e analisi perché ripeto, qui nessuno ha vinto davvero e le cose così non possono andare avanti. Ognuno si assuma le sue responsabilità e proviamo a trovare una soluzione collettiva impegnata e costante a questo sfacelo politico che ci veda soprattutto protagonisti del cambiamento che vogliamo.

venerdì 29 maggio 2015

Quando si smette di guardare all'altro come essere umano allora é necessario fermarsi un attimo a riflettere!

“Sgomberiamo, usiamo la ruspa e abbattiamo”, “sono solo la feccia, sono degli schifosi, qui non li vogliamo!” oppure ancora “vadano a lavorare, se ne ritornino a casa loro.” Queste sono solo alcune delle frasi, delle imprecazioni che sento circolare questi giorni. Ma vorrei fare anche due precisazioni. Se ve la state prendendo con i rom magari vorrebbero anche lavorare, ma immagino che nessuno di voi che urla tanto glielo darebbe un lavoro, e una nazione in ogni caso non ce l’hanno. Se ve la state prendendo con i profughi, che siano neri, mulatti, asiatici, questi a lavorare quando possono ci vanno ma vengono sfruttati; e quando ci vanno poi ve la prendete ancora con loro perché vi rubano il lavoro. Per questo vorrei che ci si fermasse un attimo a riflettere e fare un passo indietro. Dicono che il Mondo vada avanti, ma non so quale Mondo vada davvero avanti. Noi ci stiamo chiudendo, ci stiamo raggomitolando in noi stessi. Ci sono tante cose che infatti non capisco, tante cose per cui resto ogni giorno particolarmente perplessa. Ci sono parole, termini, imprecazioni che mi ricordano infatti tanto quelle del pre-guerra mondiale, una sorta di inizio di nazismo, quando si usava come capro espiatorio della crisi tedesca la razza ebraica, o appunto lo zingaro, il nero, insomma il diverso. Perché credere che in questa terra non ci dobbiamo essere nient’altro che noi? Noi chi siamo? Non siamo uomini e donne come loro nati in questo stesso Mondo e con il loro stesso diritto di viverci? Non ce la siamo comprata questa terra. Sì è vero, paghiamo le tasse per mandarla avanti. E il pagare le tasse ci garantisce quel po’ di welfare di cui ancora usufruiamo, dignità, un tetto sulla testa. Ma poi vi è una fetta di terra di cui noi non ci occupiamo, vi sono persone, i così detti outsiders (barboni, zingari, profughi) che a quanto pare perché non combinano nulla qui su questa terra secondo alcuni non vi devono essere. “Loro ci rubano solo i soldi, loro sono solo dei bastardi che si approfittano di noi.” Ma loro in realtà, non chiedono i benefici di cui noi usufruiamo. In ogni caso esistono, e forse esistono per lo stesso meccanismo che garantisce ancora a molti di noi vite dignitose, e a meno che non li vogliamo far fuori tutti, come tempo fa pensò di fare un signore che si chiamava Hitler, dobbiamo trovare un sistema per integrarli, e magari questo sistema è il lavoro. Ma il lavoro non c’è per chi nasce bianco e italiano, figuriamoci per lo zingaro o l’africano. Allora vedete che siamo contraddittori ed ipocriti. Vedete che c’è un enorme falla nel sistema che non ha nulla a che vedere con le etnie e i profughi. Perché se credete che chi non serve alla società, chi fa parte della feccia umana, chi da solo fastidio, e non è parte della razza ariana, allora deve morire perché su questa terra ci dobbiamo restare solo noi allora posso dire a malincuore che siamo diventati un popolo di nazisti o di colonialisti. Se non volete ritenervi tali allora fate un passo indietro e riflettiamo insieme. Dove stiamo andando? Dove ci sta portando questa rabbia sociale? Ve ne state rendendo conto che vi è chi ci gode(vedasi Matteo Salvini) nel mettere i penultimi che siamo noi contro gli ultimi che sono loro? Perché si una scala sociale esiste, al diavolo le baggianate del siamo tutti uguali. Dovremmo essere tutti uguali, in dignità e diritti ma No, questo modello capitalista che vi piace tanto non ci vuole tutti uguali. Ci vuole tutti diversi. C’è chi secondo questo sistema deve vivere nel extra lusso, chi invece deve vivere negli slam brasiliani o indiani per poter poi essere sfruttati. C’è chi deve migrare e chi invece non ha un posto dove stare. Non sto affatto sostenendo il principio comunista sovietico, del ripartiamo tutto in parti uguali secondo i dettami dello stato. E’ giusto che chi lavori tanto, guadagni tanto. Chi lavora poco, guadagni poco. Ma qui in questo Mondo chi ha tanto non è detto che lavori proprio tanto, e chi ha poco invece spesso e volentieri lavora molto più di quello che ha tanto. In questa terra vige lo sfruttamento più becero e meschino. Quello che si basa sull'omertà, sul silenzio, sul so ma tanto va così e non ci posso far nulla. Lo odio. Ditemi voi che non fate altro che imprecare contro lo zingaro, che chiedete di sgomberare i campi e mandarli via, dove volete che vadano? Via dal Italia? Sapete, questa etnia è ovunque. So che possono essere fastidiosi, e so anche che possono rubare. Ma vi dico anche un’altra cosa. Dobbiamo impegnarci per trovare un modo per convivere con più gruppi culturali, etnici diversi, non possiamo restare ancorati all'idea che l'Italia debba restare un paese popolato da bianchi, per i bianchi. Perché uomini e donne appartenenti a quel etnia ci sono, sono fra noi, esistono e sono in tutte le nazioni, così come gli ebrei, i musulmani, i cinesi, così come ognuno. Erano un popolo nomade, ora si stanno stanziando, dove la terra lo permette, ma vivono in baracche non vivono nei nostri palazzi. Pensate che quando il comune limitrofo vada al campo, pronto con ruspe e poliziotti a sgomberarli, poi si risolve qualcosa? No, poi non si risolve un bel niente. Si spostano e si ri-stanziano, e si incattiviscono e poi bevono magari e come dei pazzi uccidono e feriscono altre persone. No, non credo che dando fuoco a dei campi rom sia mai possibile risolvere il problema. Si loro tendendo anche a rubare, a compiere quei furtarelli che ovviamente infastidiscono ognuno di noi, perché noi anche non è che abbiamo tantissimo e possiamo permetterci di elargire denaro a chi capita. Siamo infastiditi perché violano la nostra tranquillità, perché puzzano, perché ci guardano con quei denti gialli, e quelle voci malinconiche, perché temiamo che da un momento al altro possano fregarci la borsa, ma se lavorassero non avrebbero bisogno di rubare, se li cominciassimo a guardare ognuno come una persona a sé e non tutti con quel fare accusatorio e diffidente forse ci potrebbe essere una via d’uscita. Forse mi sbaglio, ma è solo una cosa a cui ho pensato, perché io il sistema dell’usare la ruspa proprio non lo concepisco. Avanti ieri hanno ucciso, è vero, ed è stato un gesto efferato che non si può non condannare, ma perché prendersela con l’intera loro etnia? Perché non prendersela solo con chi ha ucciso e incriminare solo costui? È questo il nostro più grande errore. Vogliamo che gli altri guardino noi come persone, ma noi guardiamo gli altri come componenti di un unico blocco etnico e non va bene. Ripeto, vi sono tante domande a cui non riesco a trovare risposta. Purtroppo non ho una soluzione che possa aggradare tutti, ma mi piacerebbe solo che si riflettesse un po’ prima di sparare sentenze che sanno di fascismo e nazismo e mi piacerebbe soprattutto che dei certi signori non strumentalizzassero disgrazie per i propri fini. Devo dire che è proprio da vomito.



mercoledì 22 aprile 2015

"Non siamo pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti?"




Il 23 aprile 2015 si tiene a Bruxelles il vertice europeo sull'emergenza immigrazione. La bozza che è stata proposta dice che una delle possibili strategie da adottare per sconfiggere l’emergenza e dare quindi una risposta al crescente numero di vittime sarà quella di lasciare alla Marina il compito di affondare i barconi. Perché, secondo i loro programmi il problema è circoscritto solo ai cosiddetti trafficanti di uomini; perché come sostiene il nostro “caro” premier in quei barconi non vi sono solo famiglie innocenti”.  Ora io, non voglio fare ogni volta la solita pecora nera, che si pone in contraddizione con quanto sostenuto dalle autorità, ma mi chiedo quanto sia effettivamente
funzionale e lungimirante tale soluzione.

Non reputando chi siede sulle poltrone del palazzo a Bruxelles un perfetto idiota, mi viene naturale pensare che vi sia una logica di interesse nel contribuire a sottolineare come unico ed esclusivo problema quello del trafficante ed attribuire ogni colpa e ogni soluzione esclusivamente a quella che è solo una delle tante manifestazioni di un’emergenza e di una questione dalle portate colossali.
Dopotutto il trafficante-schiavista, non è che la conseguenza, il risultato, il prodotto di eventi e condizioni terribili che riguardano una buona fetta di umanità, disposta infatti a sborsare il proprio denaro e affidare la propria vita a dei criminali pur di venir fuori da una situazione oltremodo peggiore di quella a cui potrebbero incorrere intraprendendo il cosiddetto viaggio della speranza. Sì il trafficante è un criminale, è parte della feccia dell’umanità, in quanto sfrutta una condizione di vulnerabilità di alcuni ed è disposto a mandarli a morte per i propri guadagni. Ma facciamo un passo indietro. Se questa figura esiste, se il numero dei trafficanti è cresciuto in numero una ragione vi deve pur essere. E’ fisiologico e naturale che chi vive in condizioni di povertà, di violazioni dei propri diritti umani, di guerra, di morte imminente tende a fuggire dal luogo che determina tale condizione di incertezza in merito alla propria vita. Ogni popolo ha vissuto una situazione simile, chi prima, chi poi. Oggi questa condizione riguarda uomini, donne e bambini nati in paesi come la Siria, la Libia, l’Etiopia, perché paesi in guerra, ma anche persone provenienti dalla Nigeria, dal Sudan, o dalla Mauritania perché paesi fortemente discriminatori in merito ai diritti umani e violenti nei confronti delle minoranze. Riguarda la Palestina, così come il Pakistan e l’Afghanistan e tanti altri ancora perché paesi privati dalle circostanze storiche, sociali e politiche di un’alternativa, della possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di quel futuro così come ci viene spontaneo pensarlo a noi. Questa riflessione la facevano anche i nostri nonni, quando durante la prima metà del XX secolo erano disposti a tutto pur di dare una svolta alla loro povera condizione umana. Mettiamoci ora nei panni di chi è nato nella cosiddetta parte sfortunata del Mondo, oggi. Proviamoci perlomeno. Cosa avrei fatto io se fossi nata in Siria, o in Libia? Probabilmente avrei dato anch'io tutti i miei risparmi al primo trafficante perché unica fonte di salvezza, perché non avevo altra scelta, probabilmente anch'io per la stessa ragione sarei ora sul fondo del Mar Mediterraneo, morta, perché ho peccato di cercare aiuto altrove, perché ho consegnato tutti i miei averi alla speranza. Allora porre come unico e solo obiettivo, unica e sola soluzione quello dell’annientamento del trafficante, è davvero la soluzione più oppurtuna? Non sarebbe forse più logico fornire un alternativa che sostituisca la necessità per molti di affidarsi a quest'ultimo? Davvero l'unica cosa che riuscite a pensare è affidare tutto alle armi?Questi giorni si è sentito tanto parlare di comunità internazionale. Io questa comunità internazionale non la vedo, non l’avverto, non so più davvero cosa sia. 


martedì 21 aprile 2015

"Sei immigrato, sei vulnerabile? OK, allora ti sfrutto"

Quante volte sentiamo dire “gli immigrati vengono a rubarci il lavoro”? Tante purtroppo. E chi lo dice lo fa sulla base della scarsa informazione, e scarsa circolazione del reale. È vero che il migrante arriva in Italia, è vero che taluni lavorano. Ma come lavorano qualcuno se lo chiede? L’immigrato lavora perché vulnerabile, e perché vulnerabile può essere sfruttato. Questa situazione è lo specchio dell’economia fallimentare italiana. Mentre prima la situazione era circoscritta infatti a diverse aree italiane, ora riguarda tutta la penisola: dalla Sicilia al Piemonte. Ad esempio, a Vittoria in Sicilia vi è un area di sole serre. In quest’area vi lavorano oggi solo donne rumene e la situazione che si viene a creare è quella di una vera e propria segregazione e schiavitù. Schiavitù sì, perché come dichiarato dalla corte europea la schiavitù risponde a una situazione di mancanza totale di alternative e queste donne un alternativa non ce l’hanno. Sono imprigionate lì, ricattate, minacciate, pagate oltre il minimo salariale e talvolta anche violentate dai loro capi-padroni italiani. Non stiamo parlando di una realtà isolata e povera, ma di una realtà ricca e che deve essere conosciuta a tutti in quanto attiva tutto l’anno. A Rosarno, in Calabria accade la stessa cosa, ma questa volta con lavoratori africani che non venivano solo sfruttati ma anche costantemente aggrediti dalle organizzazioni malavitose. Qui chi lavora si è dovuto costruire delle capanne-abitazioni in lamiera, plastica e cartone, perché l’unica risposta che il governo, attraverso la protezione civile è stato capace di dare è provvedere a rifornirli di tende, non adatte però a tenerli al caldo durante l’inverno. Ma non basta. A Foggia, per produrre il simbolo del Made in Italy: il pomodoro si lavora in condizioni di profondo sfruttamento, in una situazione di ghetto, di violenze e insulti, ma stavolta con i cittadini provenienti dal est Europa. Ad Asti, così a Soluzzo in Piemonte situazione simile, con bulgari pronti a lavorare per la vendemmia e non pagati ed i quali prodotti vengono poi usati anche nel export. Affinché tutto questa persista, è necessario un sistema pronto a giustificarlo e a mantenerlo perché più comodo. La capacità della commercializzazione della criminalità è altissima, il traffico di uomini è assurdo. Il contesto delle norme al interno dell’UE è determinante nel processo di sfruttamento ed infatti il problema strutturale si basa su processi di deregolamentazione. Si favorisce un processo di nuovo lavoro povero, in alcuni casi precario, in altri gravemente sfruttato. Dal momento che devono essere raccolti un tot di prodotti in un lasso di tempo, se ci sono centinaia di ettari da raccogliere in 20 giorni, serve una quantità di manodopera tale che si crea il fenomeno del ghetto. Si stima che il lavoro sommerso nel settore agricolo sia di 400.000 lavoratori irregolari, senza diritti, di cui 100.000 esposti al grave sfruttamento e caporalato e che le maggiori nazionalità presenti siano a livello comunitario quella di Bulgaria, Romania e Polonia, mentre a livello extra comunitario Tunisia, Albania, India e Marocco. L’inchiesta che c’è a Nardò, verso Lecce sta dimostrando che la tratta interna è legata alla tratta internazionale. Ci sono delle intercettazioni, che dimostrano e registrano tutto un passaggio della tratta interna, contatti locali che si sa possano far arrivare dal Nordafrica immigrati con un permesso di lavoro che si possono reputare falsi. Le varie organizzazioni di caporalato, organizzano la gestione della piattaforma lavorativa, trascinando quindi lavoratori da una parte al altra dell’Italia per coltivare il prodotto della stagione. Ma questa è tutta una forma di servizi che si viene a creare solo se dietro vi è la totale omertà dello Stato Italiano. La direttiva Europea n 52, ratificata in Italia nel 2012 prevede un regime di tutela e protezione speciale per i lavoratori extracomunitari vittime di tratta e sfruttamento lavorativo. Il monitoraggio effettuato nel secondo rapporto dimostra però che tale norma è in gran parte disattesa. C’è la norma ma non gli strumenti di tutela economica. Per far sì che tutto questo enorme sistema corrotto venga alla luce e trovi a poco a poco la fine bisogna fare rete, integrare le azioni di tutela di questi lavorati, costruire rapporti di fiducia, tutelare i loro diritti. È necessario che lo spazio europeo si attivi a creare una legislazione e un’amministrazione più dura nel punire i trafficanti e i caporalati. La nostra economia, il nostro fallimento si basano solo su questo. Ma la colpa non è di chi arriva, la colpa è solo ed esclusivamente di chi sfrutta la situazione di vulnerabilità di alcuni, portando avanti processi di corruzione che funzionano grazie alla protezione dei poteri forti.




domenica 19 aprile 2015

L'umanità che affoga

Sono un essere umano, per questo piango, per questo ho paura, per questo non capisco. Loro erano esseri umani. Erano Settecento, e sono affogati. Morti, strappati alla vita e alla speranza che li ha condotti fin lì. Fuggivano da guerre, dal orrore, dalla disperazione, perché per affrontare il tutto e per tutto non puoi che vivere in essa. Ora i loro corpi sono sul fondo di un mare, divenuto cimitero. Insieme a quelli di tante, troppe persone. Ma voi ve la immaginate? Provate a immedesimarvi per un momento in loro? Ve lo immaginate mai l’orrore negli occhi di chi sta per affogare? Io ho provato ad immaginarlo ed è tremendo. E’ l’umanità che affoga, è la nostra consapevolezza di essere persone, così come lo sono loro. Vorrei che li si guardasse come parte dell’umanità e non come ”clandestini”. Il clandestino non esiste. Esiste l’uomo che semplicemente chiede aiuto. Ed esiste un Mondo “civile” che resta cieco e impassibile ad osservare. Ma come fa? Non è assordante questo vostro silenzio? Non è assurda la vostra immobilità che dimostra il vostro fallimento? La vostra indifferenza per me è pietrificante. La vostra ipocrisia agghiacciante. Parlo a voi, perché io non ne faccio parte. Le avete le potenzialità, perché siete il continente più ricco del Mondo, ma la strada non la si vuole intraprendere perché non bisogna disturbare la vostra comodità, il vostro vile perbenismo. Svegliati Europa, vieni fuori dalla tua avida chiusura. Guarda quello che accade a sud delle tue coste. Anzi, smetti di guardare e agisci. Solleva le braccia di chi affoga, se non le sollevi, contribuisci affinché trovino la morte. La vostra falsità e indifferenza, contribuisce a sviluppare l’odio di chi ignora la verità, o si affida alla vostre costruzioni. Siete colpevoli si, l’Europa è colpevole, così come lo sono i trafficanti di quei corpi, perché fate finta di non vedere quello che anche voi avete contribuito a determinare: un ecatombe nel nostro mar Mediterraneo. Mi sento di accusare sì, di denunciare e condannare perché io di questo schifo non faccio parte, non voglio che venga identificata in questo orrendo gioco che state portando avanti con le vite umane. Perché come scriveva M.L.King, io non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti.


mercoledì 15 aprile 2015

Lettera a un sognatore di nome Vittorio Arrigoni

"4 anni fa morivi, assassinato. Moriva il tuo corpo, morivi in una strada buia della Palestina, torturato. Non ti conoscevo bene allora. Ti ho conosciuto dopo, caro Vik, ho conosciuto solo dopo le tue meravigliose e umane parole. Le ho fatte mie. Ho provato a far mio il tuo coraggio, e leggere il tuo libro, mi ha spronato a partire per la Palestina. Dopo quello che mi hai mostrato, volevo capire meglio. Ed ho capito. Ho capito la tua rabbia, la tua disperazione, il tuo legame con quel popolo. Vedi caro Vik, il tuo messaggio di umanità non morirà mai, saremo lottatori e sognatori fino alla fine, perché come hai ripreso anche da Mandela, un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Faremo delle nostre vite poesie, finché libertà non verrà declamata sopra le catene di tutti i popoli oppressi. Come dicevo prima non ti ho mai conosciuto di persona, ma ti ho conosciuto dalle tue pagine, dai tuoi video, dai racconti di chi ti conosceva, e so per certo che staresti male oggi a vedere quanto odio si sta impadronendo di questo nostro Mondo, che consideriamo casa. Per noi, che non crediamo nei confini, nelle barriere è ancora più difficile. Perché è come se vi fosse un furente litigio nella propria casa. L’umanità la si sta perdendo a poco a poco. Il legame che ci dovrebbe far sentire tutti parte di una stessa grande famiglia si sta rompendo. Purtroppo è l’umanità che si rompe Vik, non le catene. Ricordo quanto scrissi su Gaza, eri indignato, e invitavi ad esserlo. Dicevi” rimanere immobili in silenzio significa sostenere il genocidio in corso, urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del Mondo civile, perché c’è una parte dell’umanità che sta morendo in pietoso ascolto.” Lette queste parole, ricordo scoppiai in un tragico pianto. Ho avuto paura che il Mondo non si sarebbe mai messo in ascolto, che l’immobilità avrebbe perseverato. Ma quelle parole Vik, quell'invito ad agire ha attecchito su molti, me compresa. Quella volontà di agire, di non ascoltare in silenzio vivono ancora e comunque nei cuori di tutti noi sognatori, di chi lotta perché non vinca l’ignoranza e l’indifferenza, vivono nelle marce cittadine per la legalità, vive nelle conferenze per parlare di cose di cui pochi vogliono parlare perché scomode, vivono là in quella fetta di umanità che non si vuole dare per vinta, che si sobbarca della responsabilità che si ha poiché uomini e donne di sapere e far sapere, di dare voce a chi non può, di lottare per la giustizia sociale e la libertà. Caro sognatore, grazie per la tua testimonianza, grazie davvero. Restiamo Umani. Sempre. "

venerdì 10 aprile 2015

A Yarmouk si suona un pianoforte e così si cerca la pace!

Ahmad suona a Yarmouk. Ahmad, profugo palestinese, suona il suo pianoforte nelle strade assediate della sua città profughi. La sua musica è forte, la sua musica è potente, la sua musica distrae le menti di chi prova solo dolore. Si ribella il pianista di Yarmouk, premendo le sue dita su quei tasti bianchi e neri, alla crudeltà perpetrata nei confronti del campo profughi da ben 4 anni. Gli abitanti  non possono andar via. Sono costretti lì. Più di 10.000 persone di cui quasi 4 mila bambini rischiano ogni giorno la morte. Ma il pianista non si da per vinto. Il pianoforte è la sua arma, è un arma potente, perché porta pace e allegria, la dove c'è solo disperazione, da forza a chi vede solo morte.

Grazie Ahmad, grazie per quanto stai facendo, grazie per questo messaggio che stai trasmettendo, e scusa se il Mondo si è accorto di voi solo dopo quattro anni d'assedio, perché siete attaccati non più da un solo nemico ma ben da due.
Oggi suona per il tuo popolo, suona per la tua pace, io proverò a cantare per voi, te lo prometto Ahmad. Ti prometto che un giorno finirà tutto questo orrore. E la tua musica sarà musica di pace.

mercoledì 8 aprile 2015

Finché la tortura non sarà considerata reato, la ferita sanguinarà ancora!

Nel 1984 l'Italia insieme a molti altri paesi d'Europa sottoscrisse la Convenzione contro la tortura. Da lì, la tortura si sarebbe dovuta considerare vero e proprio reato da annoverare e inserire nel Codice Penale italiano. Ma così non fu. La tortura in Italia non è reato, le forze armate che picchiano civili non possono essere punite perché per la stessa ragione per cui la tortura non si considera reato, non si vede la ragione per inserire un numero identificativo ad agente. Dopo 17 anni da quella sottoscrizione, in Italia si assistette ad uno dei momenti più osceni e bui della nostra democrazia. Ragazzi, e non solo, uomini e donne, rimasti a dormire in una scuola durante i giorni di protesta contro il G8, sono stati ferocemente torturati da quelli che si dovrebbero definire i mantenitori dell'ordine pubblico. L'atto fu atroce, disumano. Ma non vi fu mai una risposta giuridica a tutto questo. Mai si riuscì a colpevolizzare qualcuno.Perché in fin dei conti, in quella scuola Diaz non morì nessuno. Il sangue a terra ve ne era, e ve ne era anche tanto, ma quelle manganellate, avevano solo provocato traumi, ferite, non la morte. Perché in Italia l'omicidio è reato, la tortura no. Ieri, dopo 14 da quel terribile episodio, la Corte Europea ha pronunciato un verdetto d'accusa nei confronti dell'Italia per non aver mai cercato giustizia e avviato dei processi penali, e per non aver introdotto, come richiesto da Convenzione, il reato di tortura nel Codice. E' ora di dire basta, è ora di pretendere giustizia, è ora che si introduca un codice identificativo. Quello che è accaduto alla Diaz rimane una ferita aperta, e lo sarà ancora di più finché la tortura non sarà considerata reato.


http://www.amnesty.it/stoptortura/italia-reato
http://www.amnesty.it/Il-Parlamento-approvi-reato-di-tortura-richiesta-amnesty-international-antigone-arci-cild-cittadinanzattiva

Firma l'appello per dire STOP: http://www.amnesty.it/stoptortura

domenica 5 aprile 2015

Giovani vite spezzate in Kenya

E' successo qualcosa di terrificante il 2 aprile 2015. 150 studenti universitari sono stati brutalmente uccisi nel luogo che li avrebbe formati per il loro futuro, per costruire la propria vita: l'università. Temo questa terrificante disumanità, la osservo, e non la tollero. Ogni volta che si compie un simile atto siamo difronte ad un affronto perpetrato nei confronti di tutta l'umanità, non solo di una parte. L'essenza di umanità ne è vittima, il fondamento che ci tiene in vita ne è colpito e con esso noi. Quella studentessa potevo essere io, potevi essere tu. Basta poco per immedesimarsi, basta poco per pretendere una volta per tutte il dialogo.

sabato 4 aprile 2015

Il mio corpo: i miei diritti #MyBodyMyRights

possiamo parlare davvero di globalizzazione?

Possiamo parlare davvero di globalizzazione? Secondo me No. Se fossimo davvero un mondo globalizzato, le tragedie le si affronterebbe in egual misura. Se ci sentissimo davvero parte dello stesso Mondo, non vi sarebbero morti di serie A e morti di serie B. Se ci fosse una vera globalizzazione, i leader del Mondo avrebbero marciato per l'attentato all'università kenyota e per l'attentato a Tunisi così come è stato fatto per l'attentato allo Charlie Hebdo. Guardiamo gli stessi uomini con occhi differenti. Un conto è se muore di fame l'occidentale, un conto è se muore di fame l'orientale. Finché dall'Africa possiamo prendere materie prime, manodopera a costi minimi va tutto bene e siamo tutti felici di poter legittimare il tutto parlando di globalizzazione, ma quando, per colpa di conflitti armati, fame ed epidemie i cittadini di quei paesi sfruttati arrivano affrontando la morte a cercare aiuto, allora a quel punto non siamo più un unico grande Mondo. Allora a quel punto gli Africani si devono arrangiare. Così vale per il bengalese, il cinese e il pakistano. Finché vengono sfruttati per confezionarci e cucire a 1 euro al giorno gli abiti che tendiamo ad acquistare alla grandi catene va tutto bene, ma appena mettono piede qui, perché fuggono a sfruttamento e violazioni dei diritti, ci si chiude. Se no poi, chi ce li cuce più quei bei vestititi? No, ce ne è ancora di strada da fare prima di poterci dire un paese realmente globalizzato. Per adesso, continuo a notare una persistente ed ipocrita indifferenza verso i più ed una cieca attenzione rivolta al proprio piccolo orticello.

martedì 31 marzo 2015

Il volto del dramma siriano

Huda, è il nome di questa bambina siriana. 4  è il numero di anni che ha vissuto. 4 sono gli anni di guerra in Siria. Questa bambina ha visto solo guerra, solo morte, solo distruzione, solo angoscia e paura. Il suo sguardo è preoccupato, terrorizzato.La prima cosa che gli è venuto spontaneo fare di fronte ad un obiettivo di una macchina fotografica è stato alzare le braccia. Chissà quante volte avrà visto fare quel gesto ai suoi genitori, alzare le braccia in alto in senso di arresa. Lei non sa cosa sia la pace. Lei non ha mai avuto un' infanzia. Quell'infanzia a cui io, noi bambini occidentali siamo abituati. Una bambina italiana di fronte all'obiettivo di una macchina fotografica si sarebbe scansata se timida, avrebbe coperto il volto per l'imbarazzo, o si sarebbe messa in posa, sfoggiando il proprio sorriso se sfrontata e estroversa. Questa piccola siriana invece no. E' rimasta immobile, a guardare difronte a sé quello che ha immaginato fosse il suo nemico. Sì, questo è davvero il volto del dramma di un popolo, è il volto di un'infanzia negata, di un popolo che non trova pace e serenità da troppo tempo. Vittima indifesa,lei che colpe ne ha? Sua madre, mettendola al Mondo, magari come tante aveva immaginato per lei felicità, gioia,amore. E invece vede sua figlia crescere nella disperazione, sempre che ad Huda sia rimasta una madre. Ora mi voglio rivolgere a te dolce fiore."Sei nata in una terra meravigliosa, in una terra fertile, antica, sei portatrice di una nazionalità che dovrebbe rappresentare per te un vanto, e invece ti ha fatto solo star male fino ad ora. Non puoi sapere cosa sia la pace, la felicità, non le hai mai conosciute, non sai quale sia il loro aspetto.Se qualcuno ti dicesse di portarti a vedere i fuochi d'artificio, tu avresti timore, perché quei rumori per te rappresentano solo morte. Se qualcuno provasse a parlarti di giochi, di girotondi, di sonni leggeri, di cioccolatini kinder, tu non sapresti affatto di cosa si stia parlando e questo mi tormenta. Che colpe ne hai dolce Huda di questa tua infanzia negata? Nessuna davvero. Vorrei che il tuo volto non fosse così preoccupato, vorrei che tu sia felice un giorno, che vedrai il tuo paese rifiorire, e farai in modo che i tuoi figli non vedano quel che tu hai visto ora. Questa guerra è un gioco di potere assurdo, questa crisi umanitaria deve finire. Non ho soluzioni, non ho poteri, ho solo bisogno di sentir dire che sia tutto finito, e uscirò a festeggiare, per loro, per i Siriani, per te piccola Huda, e per il tuo futuro."

lunedì 30 marzo 2015

Me?!

Mi presento. Sono Silvia e sono una sognatrice. 23 anni fa sono entrata a far parte di un vasto sistema di cose, e di emozioni che fatico ancora a comprendere. Tutto intorno a me può essere al contempo affascinante, misterioso e terribilmente fastidioso. Ho paura di avvertire troppo il peso di questo Mondo. Tante volte mi vien da pensare che in fin dei conti sono una persona fortunata. Sì che lo sono. Come scrivevo in un momento di pura riflessione natalizia, sono nata bianca, europea, sana, forte, etero, benestante. Non sono nata nera, africana, malata, debole, omo, e povera. Io sono nata con delle fortune. Quando ero piccola mi dicevano che io ero nata fortunata perché sono nata con la cosiddetta camicia, simbolo di fortuna. Ma io quella placenta addosso ce l’ho e l’avrò sempre. E no, non ringrazio il signore per questo, perché non credo ad un essere superiore al uomo che elargisca doni a chi si e a chi no. E non ringrazio nemmeno il fato. Non ringrazio nessuno, se non in parte la mia famiglia, anche se non dipende interamente da loro questa fortuna. Naturalmente una volta messi al Mondo, e questa è una bellissima espressione, dobbiamo decidere noi cosa fare del tempo che ci viene concesso, che come ben si sa è molto labile. Tanto facilmente vien donata, così tanto facilmente vien portato via questa vita . Io sono stata messa al Mondo, e ripeto al Mondo e non in Italia o a San Benedetto, o nel Universo, forse non con uno scopo preciso, ma con una personalità, una potenzialità, dei principi da cui partire per costruire qualcosa. E questo qualcosa spero e credo di costruirlo un po’ alla volta con l’aiuto di chi mi ha dato la vita e non solo. Mi sono saputa e conosciuta. Ho scoperto di essere una persona sensibile. Sensibile rispetto alle piccole e grandi cose con cui ogni giorno ci interfacciamo. Sensibile di fronte a un quadro, a un pezzo di musica classica, sensibile al fruscio del vento che fa danzare la natura, al riso familiare, alla bellezza ma anche sensibile di fronte al orrore, alla tragedia. Mi sento particolarmente emotiva e in empatia con chi soffre. Sento forte in me il desiderio di agire e quindi una costante impotenza, sensazione che riesco ad annullare solo con le buone azioni in funzione di qualcun altro.