mercoledì 22 aprile 2015

"Non siamo pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti?"




Il 23 aprile 2015 si tiene a Bruxelles il vertice europeo sull'emergenza immigrazione. La bozza che è stata proposta dice che una delle possibili strategie da adottare per sconfiggere l’emergenza e dare quindi una risposta al crescente numero di vittime sarà quella di lasciare alla Marina il compito di affondare i barconi. Perché, secondo i loro programmi il problema è circoscritto solo ai cosiddetti trafficanti di uomini; perché come sostiene il nostro “caro” premier in quei barconi non vi sono solo famiglie innocenti”.  Ora io, non voglio fare ogni volta la solita pecora nera, che si pone in contraddizione con quanto sostenuto dalle autorità, ma mi chiedo quanto sia effettivamente
funzionale e lungimirante tale soluzione.

Non reputando chi siede sulle poltrone del palazzo a Bruxelles un perfetto idiota, mi viene naturale pensare che vi sia una logica di interesse nel contribuire a sottolineare come unico ed esclusivo problema quello del trafficante ed attribuire ogni colpa e ogni soluzione esclusivamente a quella che è solo una delle tante manifestazioni di un’emergenza e di una questione dalle portate colossali.
Dopotutto il trafficante-schiavista, non è che la conseguenza, il risultato, il prodotto di eventi e condizioni terribili che riguardano una buona fetta di umanità, disposta infatti a sborsare il proprio denaro e affidare la propria vita a dei criminali pur di venir fuori da una situazione oltremodo peggiore di quella a cui potrebbero incorrere intraprendendo il cosiddetto viaggio della speranza. Sì il trafficante è un criminale, è parte della feccia dell’umanità, in quanto sfrutta una condizione di vulnerabilità di alcuni ed è disposto a mandarli a morte per i propri guadagni. Ma facciamo un passo indietro. Se questa figura esiste, se il numero dei trafficanti è cresciuto in numero una ragione vi deve pur essere. E’ fisiologico e naturale che chi vive in condizioni di povertà, di violazioni dei propri diritti umani, di guerra, di morte imminente tende a fuggire dal luogo che determina tale condizione di incertezza in merito alla propria vita. Ogni popolo ha vissuto una situazione simile, chi prima, chi poi. Oggi questa condizione riguarda uomini, donne e bambini nati in paesi come la Siria, la Libia, l’Etiopia, perché paesi in guerra, ma anche persone provenienti dalla Nigeria, dal Sudan, o dalla Mauritania perché paesi fortemente discriminatori in merito ai diritti umani e violenti nei confronti delle minoranze. Riguarda la Palestina, così come il Pakistan e l’Afghanistan e tanti altri ancora perché paesi privati dalle circostanze storiche, sociali e politiche di un’alternativa, della possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di quel futuro così come ci viene spontaneo pensarlo a noi. Questa riflessione la facevano anche i nostri nonni, quando durante la prima metà del XX secolo erano disposti a tutto pur di dare una svolta alla loro povera condizione umana. Mettiamoci ora nei panni di chi è nato nella cosiddetta parte sfortunata del Mondo, oggi. Proviamoci perlomeno. Cosa avrei fatto io se fossi nata in Siria, o in Libia? Probabilmente avrei dato anch'io tutti i miei risparmi al primo trafficante perché unica fonte di salvezza, perché non avevo altra scelta, probabilmente anch'io per la stessa ragione sarei ora sul fondo del Mar Mediterraneo, morta, perché ho peccato di cercare aiuto altrove, perché ho consegnato tutti i miei averi alla speranza. Allora porre come unico e solo obiettivo, unica e sola soluzione quello dell’annientamento del trafficante, è davvero la soluzione più oppurtuna? Non sarebbe forse più logico fornire un alternativa che sostituisca la necessità per molti di affidarsi a quest'ultimo? Davvero l'unica cosa che riuscite a pensare è affidare tutto alle armi?Questi giorni si è sentito tanto parlare di comunità internazionale. Io questa comunità internazionale non la vedo, non l’avverto, non so più davvero cosa sia. 


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