E’ ricominciata la terza intifada, o almeno così sembra. E’
ricominciato il terrore, la paura e la violenza torna ad essere più acuta.
Israeliani contro palestinesi, pallottole contro coltelli, e poi pietre, e
botte, e urla. L’odio ha ripreso a fluire più aggressivo di prima. Gli
israeliani arabi (alias i palestinesi d’Israele) sono carichi di rancore e i
motivi risiedono nella Storia, i motivi risiedono in una continua
discriminazione, i motivi risiedono in un costante e troppo lungo sopruso.
Io non voglio giustificare la violenza, ma giustifico la
rabbia, la capisco, lo concepisco. Non è giusto arrivare a parlare di buoni e
cattivi, ma la Storia ci racconta che a volte vi sono gruppi più cattivi di
altri. Il Palestinese è arrabbiato, è stufo del sopruso, è stufo del muro, è
stufo di essere sotto occupazione. E’ stufo e lotta, lotta per resistere, lotta
per la propria libertà, lotta perché gli stanno portando via la dignità e la
vita. Non voglio giustificare la violenza efferata, condanno quindi sì il
palestinese che ha ucciso l’israeliano innocente, ma la Storia, le immagini
parlano da se e quanto sta accadendo questi giorni in Cisgiordania ripone le
sue radici in un lungo, troppo lungo processo di soprusi e violazioni, che ha
raggiunto il suo culmine con la dichiarazione di rendere Israele uno stato
ebraico, sottoponendo gli israeliani arabi anche dal punto di vista giuridico
ad una condizione di subalternità. Io, che in Palestina e in Israele ci sono
stata, io che la Cisgiordania l’ho visitata ho visto, ho condannato, ho denunciato.
So e mi vengono i brividi nel pensare che uno dei ragazzi conosciuti da un
momento al altro può cadere vittima di uno scontro. Ma non voglio essere l’unica
voce a raccontare. Voglio lasciar parlare Taya Govrel Segal, una ragazza israeliana
di vent'anni che martedì ad una conferenza al Università di Bologna con le sue
parole ha lasciato che i miei occhi si riempissero di lacrime.
Taya abita in una città adiacente la Cisgiordania, Taya da
qualche anno è un obiettrice di coscienza. Inizia la sua “Story”, così lo
chiama, mostrandoci una cartina, La cartina dello Stato d’Israele e dei
territori occupati della Palestina. Ci dice che in quel fazzoletto di terra, le
cui dimensioni equivalgono alla Sardegna, ci vivono 12.5 milioni di abitanti. 8.1
milioni in Israele, i restanti in Cisgiordania, sotto occupazione militare.
Continua dicendoci che lei è cresciuta da privilegiata, ma che nonostante il
fatto che viva a pochi chilometri dalla Cisgiordania, nella sua città si fa
finta di nulla, non si sente, non si vede non si dice nulla. Poi al improvviso
ha trovato un volantino per un campo in cui si parlava di diritti, del conflitto,
dei rifugiati, del femminismo. Da lì la sua vita ha preso una svolta nuova. Ha
cominciato a guardare La Palestina con occhi diversi, ha cominciato a scoprire
quello che per 16 non aveva saputo nonostante ci vivesse, ma in realtà ne era
totalmente al oscuro. Prende così a raccontare della Storia del conflitto,
partendo dal 48, la prima guerra, la più feroce, quella che permise ad Israele
di espandersi e non permettere la costituzione di due Stati; e poi della guerra
del 67. Ci ripete, rossa in volto, e con la voce emozionata e forse un po’
imbarazzata che Gaza è sotto occupazione, che vi sono diversi tipi di
palestinesi, quelli che fanno parte dello Stato d’Israele ma sono trattati come
cittadini di serie B, quelli che vivono in Cisgiordania che non possono uscire
fuori senza il permesso dell’esercito, poi ci sono i Palestinesi di Gerusalemme
est muniti di residenza ma privi di cittadinanza, i palestinesi di Gaza,
strisciolina di terra da cui non possono uscire, e infine i sei milioni
costretti dopo anni nei campi profughi. Ed ecco che riprende a parlarci della
sua esperienza diretta. Tornata a casa dal esperienza al campo, c’era lì ad
aspettarla il foglio con l’obbligo del servizio militare. Doveva partire, il
servizio militare in Israele è obbligatorio, ma lei non voleva più, non voleva
rendersi parte del sistema. Quando li portarono ai luoghi della Shoa, continua,
gli si voleva inculcare che loro dovevano imparare a combattere e difendersi
per evitare quanto era successo, per questo era necessario il servizio
militare. Ma oramai sapeva, sapeva cosa facevano i soldati, sapeva del muro e
di quante ingiustizie venivano perpetrate dai soldati. Si chiese dunque cosa
fare, doveva seguire la sua etica di persona o bisogna seguire il suo dovere di
cittadina? Scelse per l’etica, scelse per la Disobbedienza civile. Del resto
per lei fu facile, perché se sei donna essere pacifista è più normale che per
un uomo.Scoprì poi che vi erano organizzazioni e gruppi di obiettori, che
insieme manifestavano contro il servizio militare, contro il sessismo insito in
esso. Una volta che diventi soldato dice non sei più lo stesso, ti inquadrano
più di quanto non abbiano già fatto prima. Essere soldati significa tutto per
lo Stato d’Israele. In Israele funziona che se fai il servizio militare avrai
un lavoro migliore. In Israele, prosegue con le lacrime agli occhi, i soldati
vanno nelle scuole israeliane tutte le settimane, e lì insegnano la guerra ai
ragazzi, insegnano ad essere futuri cittadini d’Israele, fanno scuola dicendo
falsità, fanno scuola insieme agli insegnanti. Ha deciso quindi di unirsi ad un
gruppo d’attivisti per manifestare contro questo processo di militarizzazione,
si è unita alla lotta palestinese non violenta per aiutare i palestinesi a
Proteggere i campi d’ulivo, ha deciso di agire agire tramite proteste contro il
muro di protezione, che ha lo scopo di garantire il maggior numero di
territorio a Israele, e il minimo alla Palestina. Ma non bastava, doveva anche
dire, parlare, raccontare e capì che doveva dire ciò che accadeva, raccontando
la verità e ha deciso di unirsi alla Israel Social Tv. Si chiede Taya come mai
gli altri non vedano, come mai gli altri suoi amici non riescano ad aprire gli
occhi, a non capire. Lei non può più non parlare, non può più far finta di
niente e chiudere gli occhi come gli altri. Dice che ha perso quasi tutti i
suoi amici delle superiori, ora come amici ha solo i suoi compagni attivisti.
La famiglia non è d’accordo con la sua scelta, è dispiaciuta che la sorella
andrà a prestare servizio militare macchiandosi di malefatte. Mentre la sua
compagna di conferenza e di viaggio, una ragazza Palestinese parla a sua volta
raccontando delle violenze che subisce il suo villaggio vicino Nablus, abbassa
la testa, si vergogna, soffre e s’arrabbia nel sentir parlare di quanta
violenza gli israeliani sono capaci di dimostrare. Talvolta addirittura interviene
per aggiungere sue conoscenze e sostenere i racconti di Yasmeen.
Yasmeen Al
Najiar è una ragazza palestinese di 19 anni, rimasta invalida all età di 10
anni a causa di un ordigno israeliano. Dopo l’invalidità nel 2014 ha deciso di
intraprendere un cammino per raggiungere la vetta della Libertà. Nasmeen è
partita con una protesi alla gamba per scalare il Kilimangiaro e issare sulla
cima la bandiera della Palestina e c’è riuscita. Taya sorride quando Yasmeen
mostra l’attestato che prova la riuscita della scalata. Sono amiche, lo si
vede, e mi commuovo e per un attimo non penso agli scontri degli ultimi giorni.
Alla fine della conferenza vado da loro, stringo la mano a
entrambe e le ringrazio. Sono ragazze forti Taya e Yasmeen, lo dicono i loro sguardi,
lo dicono le loro parole, le emozioni che lasciano appena trapelare.
Sicuramente, perché sono nate in una terra che non trova pace, ed oggi
sicuramente saranno state in pensiero tutte e due per quanto è successo nelle
loro città. Hanno 19 e 20 anni Taya e Yasmeen, e nonostante la giovane età,
sono donne mature, sono donne che hanno vissuto e che vogliono combattere
contro l’odio e la brutalità che gli circola da troppo tempo intorno. Subiranno
altri mali, ma Resistono, e Insieme si raccontano e raccontando provano a
parlare di qualcosa che deve cambiare, provano a parlarci di una nuova
Palestina e di un nuovo Israele, provano a parlare di due popoli che devono
cambiare. Nella loro rabbia, nella loro tristezza sperano, perché hanno deciso
di combattere per la giustizia e la Pace, e la libertà, insieme loro due, un
israeliana e una palestinese. Loro sono la ragione per cui è ancora giusto
continuare a sperare che vi saranno tempi migliori.