mercoledì 27 gennaio 2016

L'umanità non dimentichi ciò che è stato, l'umanità non dimentichi ciò che è...


  • Oggi la Danimarca approva la legge che permette la confisca agli immigrati dei propri averi, tutto tranne la fede.
  • Ieri i ministri Europei hanno deciso che si deve proseguire con il respingimento dei profughi al confine turco.
  • Oggi, ieri, domani vi sono minoranze perseguitate, discriminate, ovunque nel Mondo e solo per citarne alcune: rom, omosessuali, minoranze religiose. 
  • Oggi, c'è chi fa propaganda politica in modo populista, dando la colpa della crisi economica a chi non possiede nulla, facendo della discriminazione il proprio cavallo di battaglia. 
  • Oggi c'è chi costruisce muri, chi respinge, chi tortura migranti.
  • Oggi c'è chi bombarda civili, persone inermi, combattendo guerre assurde. 
  • Oggi c'è un popolo, quello Curdo che viene costantemente denigrato, ed escluso, persino dall'ONU. 
  • Oggi c'è un popolo, quello Palestinese, che non vede futuro, non conosce libertà, perché qualcuno ha sempre occupato i suoi territori, ha sempre usurpato della loro dignità, costruendo insediamenti e colonie, bombardando città, costringendo un intero popolo a essere prigioniero nella propria terra. 
  • Oggi ci sono delle famiglie indonesiane, che ancora non ottengono giustizia. Cinquant'anni fa fu commesso anche lì un genocidio di un milione e mezzo di innocenti, ma gli assassini sono ancora al potere. 
  • Oggi ci sono bambini costretti a lavorare per arricchire le aziende telefoniche. 
  • Oggi ci sono nazioni, che arrestano giornalisti, che arrestano blogger, che impediscono la libertà d'espressione. 
  • Oggi ci sono Stati, dove ancora vi sono gli schiavi, ma finché a qualcuno fa comodo meglio non dire nulla.
  • Oggi 62 super ricchi posseggono quanto la restante metà della popolazione mondiale che non ha nulla, ma ci scandalizziamo più se l'immigrato ha uno smartphone.  
  • Oggi, il nostro Mondo vive in uno stato di paura e tensione, fomentato da interessi, da violenze, da ideologie becere e malsane. 
  • Oggi le violenze, le persecuzioni, le discriminazioni, sono all'ordine del giorno e la lotta per la tutela dei diritti umani sembra farsi sempre più difficile. 
  • Oggi è il giorno della memoria, oggi dovrebbe essere il giorno in cui si prende coscienza dei tempi in cui viviamo e in quanti furono massacrati un tempo vedere quanti sono massacrati e uccisi ora, vedere i siriani, vedere i profughi, vedere chi oggi costantemente soffre. 
Perché ritengo profondamente ipocrita guardarsi oggi il film di Schindler's list, piangere e poi svegliarsi l'indomani prendendo di mira l'immigrato o pensando al proprio piccolo orticello. Ricordare la persecuzione di ieri, per non accettare le persecuzioni di oggi, per combattere contro le ingiustizie dell'oggi. Finché continueremo a guardare solo al passato, senza pensare al presente, le cose che dovremo ricordare aumenteranno. Quella mostruosità e intorno a noi e non possiamo non rendercene conto.



giovedì 15 ottobre 2015

Taya e Yasmeen,un israeliana e una palestinese. Due candele in mezzo al buio, in lotta per la libertà e la fine dell'occupazione israeliana.

E’ ricominciata la terza intifada, o almeno così sembra. E’ ricominciato il terrore, la paura e la violenza torna ad essere più acuta. Israeliani contro palestinesi, pallottole contro coltelli, e poi pietre, e botte, e urla. L’odio ha ripreso a fluire più aggressivo di prima. Gli israeliani arabi (alias i palestinesi d’Israele) sono carichi di rancore e i motivi risiedono nella Storia, i motivi risiedono in una continua discriminazione, i motivi risiedono in un costante e troppo lungo sopruso.

Io non voglio giustificare la violenza, ma giustifico la rabbia, la capisco, lo concepisco. Non è giusto arrivare a parlare di buoni e cattivi, ma la Storia ci racconta che a volte vi sono gruppi più cattivi di altri. Il Palestinese è arrabbiato, è stufo del sopruso, è stufo del muro, è stufo di essere sotto occupazione. E’ stufo e lotta, lotta per resistere, lotta per la propria libertà, lotta perché gli stanno portando via la dignità e la vita. Non voglio giustificare la violenza efferata, condanno quindi sì il palestinese che ha ucciso l’israeliano innocente, ma la Storia, le immagini parlano da se e quanto sta accadendo questi giorni in Cisgiordania ripone le sue radici in un lungo, troppo lungo processo di soprusi e violazioni, che ha raggiunto il suo culmine con la dichiarazione di rendere Israele uno stato ebraico, sottoponendo gli israeliani arabi anche dal punto di vista giuridico ad una condizione di subalternità. Io, che in Palestina e in Israele ci sono stata, io che la Cisgiordania l’ho visitata ho visto, ho condannato, ho denunciato. So e mi vengono i brividi nel pensare che uno dei ragazzi conosciuti da un momento al altro può cadere vittima di uno scontro. Ma non voglio essere l’unica voce a raccontare. Voglio lasciar parlare Taya Govrel Segal, una ragazza israeliana di vent'anni che martedì ad una conferenza al Università di Bologna con le sue parole ha lasciato che i miei occhi si riempissero di lacrime.

Taya abita in una città adiacente la Cisgiordania, Taya da qualche anno è un obiettrice di coscienza. Inizia la sua “Story”, così lo chiama, mostrandoci una cartina, La cartina dello Stato d’Israele e dei territori occupati della Palestina. Ci dice che in quel fazzoletto di terra, le cui dimensioni equivalgono alla Sardegna, ci vivono 12.5 milioni di abitanti. 8.1 milioni in Israele, i restanti in Cisgiordania, sotto occupazione militare. Continua dicendoci che lei è cresciuta da privilegiata, ma che nonostante il fatto che viva a pochi chilometri dalla Cisgiordania, nella sua città si fa finta di nulla, non si sente, non si vede non si dice nulla. Poi al improvviso ha trovato un volantino per un campo in cui si parlava di diritti, del conflitto, dei rifugiati, del femminismo. Da lì la sua vita ha preso una svolta nuova. Ha cominciato a guardare La Palestina con occhi diversi, ha cominciato a scoprire quello che per 16 non aveva saputo nonostante ci vivesse, ma in realtà ne era totalmente al oscuro. Prende così a raccontare della Storia del conflitto, partendo dal 48, la prima guerra, la più feroce, quella che permise ad Israele di espandersi e non permettere la costituzione di due Stati; e poi della guerra del 67. Ci ripete, rossa in volto, e con la voce emozionata e forse un po’ imbarazzata che Gaza è sotto occupazione, che vi sono diversi tipi di palestinesi, quelli che fanno parte dello Stato d’Israele ma sono trattati come cittadini di serie B, quelli che vivono in Cisgiordania che non possono uscire fuori senza il permesso dell’esercito, poi ci sono i Palestinesi di Gerusalemme est muniti di residenza ma privi di cittadinanza, i palestinesi di Gaza, strisciolina di terra da cui non possono uscire, e infine i sei milioni costretti dopo anni nei campi profughi. Ed ecco che riprende a parlarci della sua esperienza diretta. Tornata a casa dal esperienza al campo, c’era lì ad aspettarla il foglio con l’obbligo del servizio militare. Doveva partire, il servizio militare in Israele è obbligatorio, ma lei non voleva più, non voleva rendersi parte del sistema. Quando li portarono ai luoghi della Shoa, continua, gli si voleva inculcare che loro dovevano imparare a combattere e difendersi per evitare quanto era successo, per questo era necessario il servizio militare. Ma oramai sapeva, sapeva cosa facevano i soldati, sapeva del muro e di quante ingiustizie venivano perpetrate dai soldati. Si chiese dunque cosa fare, doveva seguire la sua etica di persona o bisogna seguire il suo dovere di cittadina? Scelse per l’etica, scelse per la Disobbedienza civile. Del resto per lei fu facile, perché se sei donna essere pacifista è più normale che per un uomo.Scoprì poi che vi erano organizzazioni e gruppi di obiettori, che insieme manifestavano contro il servizio militare, contro il sessismo insito in esso. Una volta che diventi soldato dice non sei più lo stesso, ti inquadrano più di quanto non abbiano già fatto prima. Essere soldati significa tutto per lo Stato d’Israele. In Israele funziona che se fai il servizio militare avrai un lavoro migliore. In Israele, prosegue con le lacrime agli occhi, i soldati vanno nelle scuole israeliane tutte le settimane, e lì insegnano la guerra ai ragazzi, insegnano ad essere futuri cittadini d’Israele, fanno scuola dicendo falsità, fanno scuola insieme agli insegnanti. Ha deciso quindi di unirsi ad un gruppo d’attivisti per manifestare contro questo processo di militarizzazione, si è unita alla lotta palestinese non violenta per aiutare i palestinesi a Proteggere i campi d’ulivo, ha deciso di agire agire tramite proteste contro il muro di protezione, che ha lo scopo di garantire il maggior numero di territorio a Israele, e il minimo alla Palestina. Ma non bastava, doveva anche dire, parlare, raccontare e capì che doveva dire ciò che accadeva, raccontando la verità e ha deciso di unirsi alla Israel Social Tv. Si chiede Taya come mai gli altri non vedano, come mai gli altri suoi amici non riescano ad aprire gli occhi, a non capire. Lei non può più non parlare, non può più far finta di niente e chiudere gli occhi come gli altri. Dice che ha perso quasi tutti i suoi amici delle superiori, ora come amici ha solo i suoi compagni attivisti. La famiglia non è d’accordo con la sua scelta, è dispiaciuta che la sorella andrà a prestare servizio militare macchiandosi di malefatte. Mentre la sua compagna di conferenza e di viaggio, una ragazza Palestinese parla a sua volta raccontando delle violenze che subisce il suo villaggio vicino Nablus, abbassa la testa, si vergogna, soffre e s’arrabbia nel sentir parlare di quanta violenza gli israeliani sono capaci di dimostrare. Talvolta addirittura interviene per aggiungere sue conoscenze e sostenere i racconti di Yasmeen.

Yasmeen Al Najiar è una ragazza palestinese di 19 anni, rimasta invalida all età di 10 anni a causa di un ordigno israeliano. Dopo l’invalidità nel 2014 ha deciso di intraprendere un cammino per raggiungere la vetta della Libertà. Nasmeen è partita con una protesi alla gamba per scalare il Kilimangiaro e issare sulla cima la bandiera della Palestina e c’è riuscita. Taya sorride quando Yasmeen mostra l’attestato che prova la riuscita della scalata. Sono amiche, lo si vede, e mi commuovo e per un attimo non penso agli scontri degli ultimi giorni.

Alla fine della conferenza vado da loro, stringo la mano a entrambe e le ringrazio. Sono ragazze forti Taya e Yasmeen, lo dicono i loro sguardi, lo dicono le loro parole, le emozioni che lasciano appena trapelare. Sicuramente, perché sono nate in una terra che non trova pace, ed oggi sicuramente saranno state in pensiero tutte e due per quanto è successo nelle loro città. Hanno 19 e 20 anni Taya e Yasmeen, e nonostante la giovane età, sono donne mature, sono donne che hanno vissuto e che vogliono combattere contro l’odio e la brutalità che gli circola da troppo tempo intorno. Subiranno altri mali, ma Resistono, e Insieme si raccontano e raccontando provano a parlare di qualcosa che deve cambiare, provano a parlarci di una nuova Palestina e di un nuovo Israele, provano a parlare di due popoli che devono cambiare. Nella loro rabbia, nella loro tristezza sperano, perché hanno deciso di combattere per la giustizia e la Pace, e la libertà, insieme loro due, un israeliana e una palestinese. Loro sono la ragione per cui è ancora giusto continuare a sperare che vi saranno tempi migliori. 

mercoledì 2 settembre 2015

Ditemi se questo è un uomo...

Sono stata in spiaggia oggi. Davanti a me il mare. E quel rumore di onde e di gabbiani. E quel odore salato e carica d’ossigeno. A me il mare m’ha sempre dato una sensazione di pace, di armonia. Ora, guardando quel mare, e questa riva, e quei bambini con la palla che giocano, lungo la mia guancia scorrono lacrime salate e amare. Perché quel mare che bagna questa mia terra è lo stesso che ha portato sulla riva di una cittadina turca cadaveri di uomini, donne e bambini morti, è lo stesso mare che accoglie le salme di migliaia di vittime. Vittime non solo di guerre, ma vittime di un Mondo che non li vuole, vittime e ultimi, in un Mondo dove la classificazione gerarchica degli uomini emerge ancora e con violenza. Quel mare che per noi abitanti di una cittadina turistica è fonte di guadagno, per i più significa via di fuga, per molti significa salvezza, per troppi significa morte. Tornata a casa, accendo il computer, ed ecco la foto del piccolo siriano morto disteso sulla riva di una cittadina turca. Un brivido di paura e orrore mi ha scossa. I giornali titolano che il Mondo dinnanzi a tale immagine ha taciuto, il Mondo ha avuto pena e pietà di quel bambino. Il suo innocente corpicino ha scosso i cuori di chi fino ad oggi non è stato minimamente scosso. Ma serviva la sua morte prima che il Mondo tacesse? Serviva l’ennesimo bambino siriano ucciso per parlare di un paese che è capace di dirsi sensibile? Il Mondo in realtà tace d’indifferenza, il Mondo crudelmente accetta la classificazione gerarchica di questo sistema, e in questo modo la bellezza svanisce, l’umanità cessa di esistere. Perché quella che stiamo vivendo noi qui oggi è la guerra dei poveri contro i ricchi, è la guerra dei disperati, dei senza speranza, dei rifiutati e c’è chi si permette ancora di pensarli inferiori a noi, diversi da noi perché sono nati dall’altro lato del mediterraneo. Questa Europa si dice salda, eppure lascia che lunghi muri di filo spinato vengano costruiti lungo le proprie frontiere per bloccare il passaggio, lascia che stazioni ferroviarie vengano prese d’assalto, lascia che la polizia nazionale carichi su uomini, donne e bambini indifesi, lascia che si marchino persone con il pennarello, lascia che l’unico sistema per attraversare il mediterraneo è quello di appellarsi ai trafficanti, e lasciando che tutto questo si compia, pur di difendere la propria sicurezza, mostra la propria porosità, la propria fragilità.  Per rispondere alla solita domanda di questi giorni " dove cazzo li mettiamo tutti", sinceramente ancora proprio non lo so. Però ho paura che forse non ci stiamo rendendo conto, che a furia di porci questa domanda senza trovare delle soluzioni vere e immediate, che non possono consistere a mio parere né in una guerra alla Libia, né nella costruzioni di ulteriori barricate, stiamo lasciando che si compi un vero e proprio genocidio, una seconda Auschwitz proprio davanti e sotto i nostri occhi. Io non so come molti riescano a guardare a chi arriva come esseri diversi da noi. Io spero davvero che certe immagini riescano a raggiungere i vostri cuori, la vostra umanità. Io spero che ognuno di noi, oggi, domani e nei prossimi giorni prima di prendersela con l’extra comunitario, faccia uno sforzo di empatia, uno sforzo di umanità e si metta nei suoi panni, si chieda semplicemente “cos’avrei fatto io al suo posto” . Se non siete capaci nemmeno di questo, se un uomo non è più in grado di mettersi nei panni dell’altro uomo allora vuol dire che non v’è più salvezza per l’umanità e non vi è alcun vincitore in questa assurda guerra, ma solo sconfitti.

lunedì 1 giugno 2015

Regionali 2015: nessuno ha ha vinto davvero.

Guardando agli exit poll di queste regionali resto perplessa e sì triste. Perché è l'Italia tutta che ha perso. Nessuno ha vinto davvero. Che non esultino tanto i piddini che si sono visti aggiudicata la vittoria in 4/5 regioni ma solo con in media appena il 20% del consenso a livello nazionale. Perché quando solo un italiano su due va a votare, quando nel centro Italia la lega Nord arriva a percentuali del 20% dei votanti per regione, se in Campania vince un impresentabile, non puoi che renderti conto che per quanto tu partito di "centro sinistra" ti sei aggiudicato il governo di più regioni rispetto agli altri partiti non hai vinto davvero. A "vincere" è sempre più lo sconforto, l'amarezza, la disumanizzazione, l'indifferenza, l'omertà culturale, la rabbia sociale, la sfiducia in tutto ciò che l'istituzione rappresenta, prodotti sì anche della nostra cultura, ma soprattutto di un sempre più disattento sguardo ai bisogni dei cittadini, di un sempre più debole senso di Stato e Democrazia. E io voglio che chi di dovere se ne renda conto. Voglio che non si facciano discorsi di vittoria ma di presa di coscienza e analisi perché ripeto, qui nessuno ha vinto davvero e le cose così non possono andare avanti. Ognuno si assuma le sue responsabilità e proviamo a trovare una soluzione collettiva impegnata e costante a questo sfacelo politico che ci veda soprattutto protagonisti del cambiamento che vogliamo.

venerdì 29 maggio 2015

Quando si smette di guardare all'altro come essere umano allora é necessario fermarsi un attimo a riflettere!

“Sgomberiamo, usiamo la ruspa e abbattiamo”, “sono solo la feccia, sono degli schifosi, qui non li vogliamo!” oppure ancora “vadano a lavorare, se ne ritornino a casa loro.” Queste sono solo alcune delle frasi, delle imprecazioni che sento circolare questi giorni. Ma vorrei fare anche due precisazioni. Se ve la state prendendo con i rom magari vorrebbero anche lavorare, ma immagino che nessuno di voi che urla tanto glielo darebbe un lavoro, e una nazione in ogni caso non ce l’hanno. Se ve la state prendendo con i profughi, che siano neri, mulatti, asiatici, questi a lavorare quando possono ci vanno ma vengono sfruttati; e quando ci vanno poi ve la prendete ancora con loro perché vi rubano il lavoro. Per questo vorrei che ci si fermasse un attimo a riflettere e fare un passo indietro. Dicono che il Mondo vada avanti, ma non so quale Mondo vada davvero avanti. Noi ci stiamo chiudendo, ci stiamo raggomitolando in noi stessi. Ci sono tante cose che infatti non capisco, tante cose per cui resto ogni giorno particolarmente perplessa. Ci sono parole, termini, imprecazioni che mi ricordano infatti tanto quelle del pre-guerra mondiale, una sorta di inizio di nazismo, quando si usava come capro espiatorio della crisi tedesca la razza ebraica, o appunto lo zingaro, il nero, insomma il diverso. Perché credere che in questa terra non ci dobbiamo essere nient’altro che noi? Noi chi siamo? Non siamo uomini e donne come loro nati in questo stesso Mondo e con il loro stesso diritto di viverci? Non ce la siamo comprata questa terra. Sì è vero, paghiamo le tasse per mandarla avanti. E il pagare le tasse ci garantisce quel po’ di welfare di cui ancora usufruiamo, dignità, un tetto sulla testa. Ma poi vi è una fetta di terra di cui noi non ci occupiamo, vi sono persone, i così detti outsiders (barboni, zingari, profughi) che a quanto pare perché non combinano nulla qui su questa terra secondo alcuni non vi devono essere. “Loro ci rubano solo i soldi, loro sono solo dei bastardi che si approfittano di noi.” Ma loro in realtà, non chiedono i benefici di cui noi usufruiamo. In ogni caso esistono, e forse esistono per lo stesso meccanismo che garantisce ancora a molti di noi vite dignitose, e a meno che non li vogliamo far fuori tutti, come tempo fa pensò di fare un signore che si chiamava Hitler, dobbiamo trovare un sistema per integrarli, e magari questo sistema è il lavoro. Ma il lavoro non c’è per chi nasce bianco e italiano, figuriamoci per lo zingaro o l’africano. Allora vedete che siamo contraddittori ed ipocriti. Vedete che c’è un enorme falla nel sistema che non ha nulla a che vedere con le etnie e i profughi. Perché se credete che chi non serve alla società, chi fa parte della feccia umana, chi da solo fastidio, e non è parte della razza ariana, allora deve morire perché su questa terra ci dobbiamo restare solo noi allora posso dire a malincuore che siamo diventati un popolo di nazisti o di colonialisti. Se non volete ritenervi tali allora fate un passo indietro e riflettiamo insieme. Dove stiamo andando? Dove ci sta portando questa rabbia sociale? Ve ne state rendendo conto che vi è chi ci gode(vedasi Matteo Salvini) nel mettere i penultimi che siamo noi contro gli ultimi che sono loro? Perché si una scala sociale esiste, al diavolo le baggianate del siamo tutti uguali. Dovremmo essere tutti uguali, in dignità e diritti ma No, questo modello capitalista che vi piace tanto non ci vuole tutti uguali. Ci vuole tutti diversi. C’è chi secondo questo sistema deve vivere nel extra lusso, chi invece deve vivere negli slam brasiliani o indiani per poter poi essere sfruttati. C’è chi deve migrare e chi invece non ha un posto dove stare. Non sto affatto sostenendo il principio comunista sovietico, del ripartiamo tutto in parti uguali secondo i dettami dello stato. E’ giusto che chi lavori tanto, guadagni tanto. Chi lavora poco, guadagni poco. Ma qui in questo Mondo chi ha tanto non è detto che lavori proprio tanto, e chi ha poco invece spesso e volentieri lavora molto più di quello che ha tanto. In questa terra vige lo sfruttamento più becero e meschino. Quello che si basa sull'omertà, sul silenzio, sul so ma tanto va così e non ci posso far nulla. Lo odio. Ditemi voi che non fate altro che imprecare contro lo zingaro, che chiedete di sgomberare i campi e mandarli via, dove volete che vadano? Via dal Italia? Sapete, questa etnia è ovunque. So che possono essere fastidiosi, e so anche che possono rubare. Ma vi dico anche un’altra cosa. Dobbiamo impegnarci per trovare un modo per convivere con più gruppi culturali, etnici diversi, non possiamo restare ancorati all'idea che l'Italia debba restare un paese popolato da bianchi, per i bianchi. Perché uomini e donne appartenenti a quel etnia ci sono, sono fra noi, esistono e sono in tutte le nazioni, così come gli ebrei, i musulmani, i cinesi, così come ognuno. Erano un popolo nomade, ora si stanno stanziando, dove la terra lo permette, ma vivono in baracche non vivono nei nostri palazzi. Pensate che quando il comune limitrofo vada al campo, pronto con ruspe e poliziotti a sgomberarli, poi si risolve qualcosa? No, poi non si risolve un bel niente. Si spostano e si ri-stanziano, e si incattiviscono e poi bevono magari e come dei pazzi uccidono e feriscono altre persone. No, non credo che dando fuoco a dei campi rom sia mai possibile risolvere il problema. Si loro tendendo anche a rubare, a compiere quei furtarelli che ovviamente infastidiscono ognuno di noi, perché noi anche non è che abbiamo tantissimo e possiamo permetterci di elargire denaro a chi capita. Siamo infastiditi perché violano la nostra tranquillità, perché puzzano, perché ci guardano con quei denti gialli, e quelle voci malinconiche, perché temiamo che da un momento al altro possano fregarci la borsa, ma se lavorassero non avrebbero bisogno di rubare, se li cominciassimo a guardare ognuno come una persona a sé e non tutti con quel fare accusatorio e diffidente forse ci potrebbe essere una via d’uscita. Forse mi sbaglio, ma è solo una cosa a cui ho pensato, perché io il sistema dell’usare la ruspa proprio non lo concepisco. Avanti ieri hanno ucciso, è vero, ed è stato un gesto efferato che non si può non condannare, ma perché prendersela con l’intera loro etnia? Perché non prendersela solo con chi ha ucciso e incriminare solo costui? È questo il nostro più grande errore. Vogliamo che gli altri guardino noi come persone, ma noi guardiamo gli altri come componenti di un unico blocco etnico e non va bene. Ripeto, vi sono tante domande a cui non riesco a trovare risposta. Purtroppo non ho una soluzione che possa aggradare tutti, ma mi piacerebbe solo che si riflettesse un po’ prima di sparare sentenze che sanno di fascismo e nazismo e mi piacerebbe soprattutto che dei certi signori non strumentalizzassero disgrazie per i propri fini. Devo dire che è proprio da vomito.



mercoledì 22 aprile 2015

"Non siamo pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti?"




Il 23 aprile 2015 si tiene a Bruxelles il vertice europeo sull'emergenza immigrazione. La bozza che è stata proposta dice che una delle possibili strategie da adottare per sconfiggere l’emergenza e dare quindi una risposta al crescente numero di vittime sarà quella di lasciare alla Marina il compito di affondare i barconi. Perché, secondo i loro programmi il problema è circoscritto solo ai cosiddetti trafficanti di uomini; perché come sostiene il nostro “caro” premier in quei barconi non vi sono solo famiglie innocenti”.  Ora io, non voglio fare ogni volta la solita pecora nera, che si pone in contraddizione con quanto sostenuto dalle autorità, ma mi chiedo quanto sia effettivamente
funzionale e lungimirante tale soluzione.

Non reputando chi siede sulle poltrone del palazzo a Bruxelles un perfetto idiota, mi viene naturale pensare che vi sia una logica di interesse nel contribuire a sottolineare come unico ed esclusivo problema quello del trafficante ed attribuire ogni colpa e ogni soluzione esclusivamente a quella che è solo una delle tante manifestazioni di un’emergenza e di una questione dalle portate colossali.
Dopotutto il trafficante-schiavista, non è che la conseguenza, il risultato, il prodotto di eventi e condizioni terribili che riguardano una buona fetta di umanità, disposta infatti a sborsare il proprio denaro e affidare la propria vita a dei criminali pur di venir fuori da una situazione oltremodo peggiore di quella a cui potrebbero incorrere intraprendendo il cosiddetto viaggio della speranza. Sì il trafficante è un criminale, è parte della feccia dell’umanità, in quanto sfrutta una condizione di vulnerabilità di alcuni ed è disposto a mandarli a morte per i propri guadagni. Ma facciamo un passo indietro. Se questa figura esiste, se il numero dei trafficanti è cresciuto in numero una ragione vi deve pur essere. E’ fisiologico e naturale che chi vive in condizioni di povertà, di violazioni dei propri diritti umani, di guerra, di morte imminente tende a fuggire dal luogo che determina tale condizione di incertezza in merito alla propria vita. Ogni popolo ha vissuto una situazione simile, chi prima, chi poi. Oggi questa condizione riguarda uomini, donne e bambini nati in paesi come la Siria, la Libia, l’Etiopia, perché paesi in guerra, ma anche persone provenienti dalla Nigeria, dal Sudan, o dalla Mauritania perché paesi fortemente discriminatori in merito ai diritti umani e violenti nei confronti delle minoranze. Riguarda la Palestina, così come il Pakistan e l’Afghanistan e tanti altri ancora perché paesi privati dalle circostanze storiche, sociali e politiche di un’alternativa, della possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di quel futuro così come ci viene spontaneo pensarlo a noi. Questa riflessione la facevano anche i nostri nonni, quando durante la prima metà del XX secolo erano disposti a tutto pur di dare una svolta alla loro povera condizione umana. Mettiamoci ora nei panni di chi è nato nella cosiddetta parte sfortunata del Mondo, oggi. Proviamoci perlomeno. Cosa avrei fatto io se fossi nata in Siria, o in Libia? Probabilmente avrei dato anch'io tutti i miei risparmi al primo trafficante perché unica fonte di salvezza, perché non avevo altra scelta, probabilmente anch'io per la stessa ragione sarei ora sul fondo del Mar Mediterraneo, morta, perché ho peccato di cercare aiuto altrove, perché ho consegnato tutti i miei averi alla speranza. Allora porre come unico e solo obiettivo, unica e sola soluzione quello dell’annientamento del trafficante, è davvero la soluzione più oppurtuna? Non sarebbe forse più logico fornire un alternativa che sostituisca la necessità per molti di affidarsi a quest'ultimo? Davvero l'unica cosa che riuscite a pensare è affidare tutto alle armi?Questi giorni si è sentito tanto parlare di comunità internazionale. Io questa comunità internazionale non la vedo, non l’avverto, non so più davvero cosa sia. 


martedì 21 aprile 2015

"Sei immigrato, sei vulnerabile? OK, allora ti sfrutto"

Quante volte sentiamo dire “gli immigrati vengono a rubarci il lavoro”? Tante purtroppo. E chi lo dice lo fa sulla base della scarsa informazione, e scarsa circolazione del reale. È vero che il migrante arriva in Italia, è vero che taluni lavorano. Ma come lavorano qualcuno se lo chiede? L’immigrato lavora perché vulnerabile, e perché vulnerabile può essere sfruttato. Questa situazione è lo specchio dell’economia fallimentare italiana. Mentre prima la situazione era circoscritta infatti a diverse aree italiane, ora riguarda tutta la penisola: dalla Sicilia al Piemonte. Ad esempio, a Vittoria in Sicilia vi è un area di sole serre. In quest’area vi lavorano oggi solo donne rumene e la situazione che si viene a creare è quella di una vera e propria segregazione e schiavitù. Schiavitù sì, perché come dichiarato dalla corte europea la schiavitù risponde a una situazione di mancanza totale di alternative e queste donne un alternativa non ce l’hanno. Sono imprigionate lì, ricattate, minacciate, pagate oltre il minimo salariale e talvolta anche violentate dai loro capi-padroni italiani. Non stiamo parlando di una realtà isolata e povera, ma di una realtà ricca e che deve essere conosciuta a tutti in quanto attiva tutto l’anno. A Rosarno, in Calabria accade la stessa cosa, ma questa volta con lavoratori africani che non venivano solo sfruttati ma anche costantemente aggrediti dalle organizzazioni malavitose. Qui chi lavora si è dovuto costruire delle capanne-abitazioni in lamiera, plastica e cartone, perché l’unica risposta che il governo, attraverso la protezione civile è stato capace di dare è provvedere a rifornirli di tende, non adatte però a tenerli al caldo durante l’inverno. Ma non basta. A Foggia, per produrre il simbolo del Made in Italy: il pomodoro si lavora in condizioni di profondo sfruttamento, in una situazione di ghetto, di violenze e insulti, ma stavolta con i cittadini provenienti dal est Europa. Ad Asti, così a Soluzzo in Piemonte situazione simile, con bulgari pronti a lavorare per la vendemmia e non pagati ed i quali prodotti vengono poi usati anche nel export. Affinché tutto questa persista, è necessario un sistema pronto a giustificarlo e a mantenerlo perché più comodo. La capacità della commercializzazione della criminalità è altissima, il traffico di uomini è assurdo. Il contesto delle norme al interno dell’UE è determinante nel processo di sfruttamento ed infatti il problema strutturale si basa su processi di deregolamentazione. Si favorisce un processo di nuovo lavoro povero, in alcuni casi precario, in altri gravemente sfruttato. Dal momento che devono essere raccolti un tot di prodotti in un lasso di tempo, se ci sono centinaia di ettari da raccogliere in 20 giorni, serve una quantità di manodopera tale che si crea il fenomeno del ghetto. Si stima che il lavoro sommerso nel settore agricolo sia di 400.000 lavoratori irregolari, senza diritti, di cui 100.000 esposti al grave sfruttamento e caporalato e che le maggiori nazionalità presenti siano a livello comunitario quella di Bulgaria, Romania e Polonia, mentre a livello extra comunitario Tunisia, Albania, India e Marocco. L’inchiesta che c’è a Nardò, verso Lecce sta dimostrando che la tratta interna è legata alla tratta internazionale. Ci sono delle intercettazioni, che dimostrano e registrano tutto un passaggio della tratta interna, contatti locali che si sa possano far arrivare dal Nordafrica immigrati con un permesso di lavoro che si possono reputare falsi. Le varie organizzazioni di caporalato, organizzano la gestione della piattaforma lavorativa, trascinando quindi lavoratori da una parte al altra dell’Italia per coltivare il prodotto della stagione. Ma questa è tutta una forma di servizi che si viene a creare solo se dietro vi è la totale omertà dello Stato Italiano. La direttiva Europea n 52, ratificata in Italia nel 2012 prevede un regime di tutela e protezione speciale per i lavoratori extracomunitari vittime di tratta e sfruttamento lavorativo. Il monitoraggio effettuato nel secondo rapporto dimostra però che tale norma è in gran parte disattesa. C’è la norma ma non gli strumenti di tutela economica. Per far sì che tutto questo enorme sistema corrotto venga alla luce e trovi a poco a poco la fine bisogna fare rete, integrare le azioni di tutela di questi lavorati, costruire rapporti di fiducia, tutelare i loro diritti. È necessario che lo spazio europeo si attivi a creare una legislazione e un’amministrazione più dura nel punire i trafficanti e i caporalati. La nostra economia, il nostro fallimento si basano solo su questo. Ma la colpa non è di chi arriva, la colpa è solo ed esclusivamente di chi sfrutta la situazione di vulnerabilità di alcuni, portando avanti processi di corruzione che funzionano grazie alla protezione dei poteri forti.